venerdì 13 gennaio 2012

IL SOPRAVVISSUTO

Il mio barbiere si chiama Massimo ed è uno dei pochi sopravvissuti al rogo di Viareggio del 29 giugno 2009, fra quanti abitavano nel gruppo di case immediatamente adiacenti ai binari, là dove ha deragliato il carro cisterna che ha causato il disastro. I fatti sono noti e basterà ricordarli per sommi capi.

Alle ore 23.48, un treno merci composto da quattordici vagoni adibiti al trasporto di gas propano liquido, deraglia subito dopo aver attraversato la stazione ferroviaria di Viareggio, per il cedimento del carrello del primo carro. La cisterna di testa viene perforata, sembra, da un picchetto di tracciamento della curva, e il gas fuoriesce dallo squarcio. L’incidente avviene praticamente in mezzo al centro abitato, a poca distanza dalle case, in particolare da quelle di Via Ponchielli, che sorgono nei paraggi della strada ferrata. Se il treno fosse riuscito a trascinare i vagoni per poche altre centinaia di metri, l’esplosione sarebbe avvenuta in mezzo ai campi e i danni sarebbero stati limitati. Invece, il punto del disastro sembra scelto apposta per fare il maggior numero di vittime possibile.

Lo scoppio, comunque, non avviene subito. I macchinisti hanno il tempo per fuggire e per cercare di dare l’allarme. Un fornaio che sta andando al lavoro, e attraversa tutte le notti il cavalcavia della stazione, invece di scappare, si ferma a metà del ponte, curioso, per guardare i carri rovesciati sotto di lui, mentre il propano sibila uscendo dalla cisterna e si mescola con l’ossigeno. Basta l’innesco di una scintilla per scatenare l’inferno. C’è chi dice che a provocarla sia un motociclista che transita in scooter al di là del muro della ferrovia, c’è chi dice che la causa invece sia un’altra. Un accendino, un punto di attrito fra due lamiere, chissà. Fatto sta che il motociclista viene spazzato via dall’esplosione e resta carbonizzato sulla strada insieme al suo motorino. Del fornaio non si trova neppure il cadavere: avvolto completamente da fiamme alte cinquanta metri, viene letteralmente incenerito. Forse, sono i morti più fortunati. Molto peggio è andata a chi è arso vivo nei minuti successivi e a chi è morto a distanza di giorni, settimane e mesi in conseguenza delle ustioni.

Le case di via Ponchielli vengono investite dall’onda d’urto e dalle fiamme. Alcune crollano, altre prendono fuoco come se fossero di paglia. Per chi è sceso in strada per vedere che cosa è successo e per chi è rimasto dentro ignaro o sbirciando magari dalla finestra, è la fine. C’è chi viene ritrovato bruciato per la via, chi sepolto dalle macerie. Ma c’è anche chi corre cercando scampo mentre è trasformato in una torcia umana. Alla fine i morti sono 32. Undici le vittime la notte dell’incidente, ventuno quelle decedute in ospedale a distanza di tempo. A loro, vanno aggiunti due anziani morti per infarto in seguito allo shock. Circa mille persone vengono evacuate. Oggi, le case di via Ponchielli sono state abbattute e ricostruite a maggior distanza dai binari ed è in corso un processo per stabilire cause e colpevoli del disastro.

Io abito a Viareggio da più di cinque anni, ed ero lì il giorno prima della strage. La casa dove vivo è comunque distante un paio di chilometri in linea d’aria dal punto dell’esplosione. Al momento dello scoppio, ero da poco ripartito per Milano e ho saputo della tragedia soltanto la mattina dopo, molto presto, quando Gallieno Ferri mi ha svegliato telefonandomi: aveva appena visto in TV le prime immagini. Nei telegiornali della giornata, vengono intervistati alcuni superstiti e uno in particolare, che rende la sua testimonianza da un letto d’ospedale, ancora in stato confusionale, è appunto Massimo. Lui e la sua famiglia (la moglie e un bambino molto piccolo) sono gli unici sopravvissuti tra i suoi vicini di casa.

Nei giorni successivi, passando davanti al negozio, lo vedo chiuso. Poi, più o meno un mese dopo, scorgo Massimo all'interno, mentre fa pulizia, pur senza aver riaperto. Mi chiedo se sia o non sia il caso di fermarmi costringendolo a rivivere di nuovo, con l’obbligo di dirmi come sta e che cosa gli sia successo, il dramma vissuto. Accidenti, è assurdo avere dubbi: è un amico. Busso al vetro, mi apre, sembra contento di vedermi. Dice che non sa ancora quando riaprirà ma intanto la bottega va preparata per riprendere l’attività, dopo le settimane in cui nessuno l’ha pulita. Ha ancora lo sguardo shockato, la voce tremante, le mani nervose. Mi dà il primo resoconto, estremamente drammatico, della sua esperienza. In seguito, approfondisco con lui l’argomento, e Massimo mi tiene aggiornato sul procedere dei lavori per potersi trasferire in una casa nuova, dopo i primi risarcimenti anticipati alle vittime.

Il suo racconto di quel che è successo quella notte è, in realtà, la spiegazione del perché lui è vivo e gli altri no. E’ in casa, davanti alla TV, con la moglie. Il bambino, di pochi mesi, dorme. Sentono il rumore del deragliamento. Massimo guarda attraverso le fessure delle tapparelle. Inizialmente non capisce bene, poi sente odore di gas e quindi vede una nuvola bianca, alta alcuni metri, venire dalla ferrovia verso di lui, come l’onda di un silenzioso tsunami. A questo punto, può decidere di fuggire nella via, come molti altri. Invece, ha un’idea diversa, un’illuminazione. Il propano è pesante, grava sulla strada. Moglie e marito si guardano negli occhi, sono gli attimi che fanno la differenza fra la vita e la morte. “Andiamo in soffitta e da lì passiamo sul tetto!”, dice Massimo. Prendono il bambino, viene aperta la botola della soffitta, salgono sulla scala, arrivano di sopra. A quel punto c’è l’esplosione.

Una fiammata invade la casa. Dalla botola della soffitta, Massimo vede il fuoco nel salotto dove si trovava fino a poco prima. L’appartamento brucia. Dalla soffitta salgono sul tetto. Massimo va avanti con il bambino in braccio, e cammina in equilibrio su un muretto che collega la sua casa con quella accanto, molti metri sopra il piano stradale. Raggiungono il tetto vicino, con il cuore il tumulto, mentre la loro casa viene avvolta dal rogo. Per scendere, vedono una tettoia di una specie di ripostiglio, in un cortile sottostante. C’è da fare un salto di tre o quattro metri per arrivarci. Massimo salta con il bambino in braccio. La tettoia si rivela di plastica e non regge l’urto. Il padre e il figlio la sfondano e cadono di sotto. I metri di salto finiscono per essere sette o otto. La mamma, rimasta in alto, grida. Massimo riapre gli occhi dolorante. Si è rotto il bacino e diverse costole, ma il suo primo pensiero, terrorizzante, è di poter avere ucciso il figlio cascandoci sopra. E’ il contrario: il suo corpo ha fatto da materasso al piccolo, che non ha subito nessun danno. Massimo guarda in alto e vede il cielo colorato di un incredibile color arancio dalle fiamme altissime dell’incendio: lui però è già a distanza di sicurezza. Arrivano i pompieri, prendono il bambino, salvano la moglie, lo portano in ospedale. Lì, è l’inferno: il superstite viene messo su una barella e vede arrivare accanto a lui gli ustionati portati via dall’incendio. Vede scene terribili, è costretto a chiudere gli occhi. Ripenso spesso a questo racconto e mi chiedo che cosa avrei fatto io. Sarei fuggito in strada, o avrei avuto l’illuminazione giusta fuggendo sul tetto? Penso che probabilmente mi sarei chiuso in una stanza di casa, sperando che la porta e le pareti bastassero a tenere lontane le fiamme. Dunque serei morto. Oggi sono tornato da Massimo a tagliarmi i capelli. Abbiamo parlato della crisi, delle tasse e degli sprechi. E’ un po’ che non parliamo più dell’incidente.