venerdì 23 novembre 2012

LETTI DI FOGLIE



Come da tradizione ormai inveterata, ecco i libri "letti a letto" (dal sottoscritto) nei mesi di settembre e di ottobre di questo 2012 che si avvia a conclusione, dunque in autunno quando gli alberi cominciano a ingiallire, dunque se si pensa a dei letti autunnali vengono in mente quelli di foglie del sottobosco, là dove nascono i funghi. L'autunno invita all'archiviazione (si mettono da parte le scorte per l'inverno, si riordinano i cassetti per organizzarsi riprendendo il lavoro dopo le vacanze), e dunque anche le schede delle letture vengono archiviate qui sul blog, a futura memoria. 



DON CHISCIOTTE
di Benito Jacovitti
a cura di Luca Boschi 
Edizioni Di, 2006 

Non so se riuscirò mai a completare la raccolta dell'opera omnia di Jacovitti, ma ogni volta che mi procuro un nuovo libro che manca alla mia collezione resto a bocca aperta di fronte ai suoi disegni e alle sue trovate. E' successo anche in questo caso, davanti al paginone iniziale in cui il geniale autore molisano (che ho avuto la fortuna di incontrare, una volta, e di vedermi offrire uno dei suoi sigari che pretese di vedermi fumare insieme a lui) offre una visione d'insieme della vita nel medioevo così come se la immaginava. Si mostra, fra le altre cose, l'attacco a una fortezza: gli occupanti hanno messo rose e fiordalisi davanti all'ingresso e apposto un avviso che dice "Vietato calpestare i fiori". "Con quel cartello bene in vista, il nemico non entrerà nemmeno con il ponte levatoio abbassato!", dice un soldato a un altro. In un altro punto del castello, c'è una parete intera tappezzata di manifesti affissi che dicono tutti: "Vietata l'affissione". In alto, un soldato "mette i merli in gabbia" coprendo la merlatura con delle voliere. Le palle di cannone sono depositate in un angolo con un cartello che recita: "Tre palle un soldo". Insomma, non c'è un solo angolo del paginone senza una battuta, soltanto grafica o recitata con i balloon. "Tutto quello che vedete è una scusa per dirvi che dal prossimo numero del Vittorioso vedrete un Don Chisciotte del sottoscritto. Ciao, Jacovitti", si legge in un papiro in alto a destra. Ma poi, quando si passa alla prima puntata, di medievale non c'è proprio nulla, dato che il Don Chisciotte jacovittiano è ambientato ai giorni nostri, anzi, ai giorni suoi, cioè nel 1950 (anni in cui il racconto venne realizzato). Quando ho usato il termine "paginone" non ho usato un'iperbole: si tratta davvero di paginoni, dato che l'edizione curata da quel fenomeno di Luca Boschi ripropone le pagine del formato originale (o quasi) del Vittorioso, e dunque su fogli (più o meno) A3. Ne viene fuori un libro un po' impegnativo da maneggiare ma si tratta dell'unico modo per restituire l'opera alle dimensioni originarie. Che poi, Jacovitti scriveva i testi piccini piccini e riempiva le vignette, incastrandole fra loro, per cui non sarebbe stato neppure facile, volendo, riprodurre le tavole in formato più piccolo o rimontarle in un altro modo. E' questo il motivo, come si spiega nell'introduzione, per cui gli originali del Don Chisciotte si sono salvati dallo scempio fatto su altre tavole, tagliuzzate in maniera indegna da grafici folli chiamati a organizzare delle edizioni tascabili. A proposito di introduzione, un applauso a Boschi per il suo informatissimo saggio su tutti gli adattamenti umoristici a fumetti del Don Chisciotte (da quelli disneyani a quelli erotici) fatti in Italia, ma tirando in ballo anche Picasso e Dalì e parlando delle versioni cinematografiche internazionali, e per la ricostruzione della vicenda editoriale della parodia jacovittiana, uscita sul "Vittorioso" dal 9 febbraio all'8 ottobre 1950, e riproposta poi in volume nel 1953. Una versione in bianco e nero uscì poi su "Il Mago" nel 1973, in bianco e nero. E sono proprie queste due versioni a costituire il cartonato delle Edizioni Di, che presentano l'opera sia a colori, come uscì originariamente, sia in black & white. Si diceva di come, in realtà, Jacovitti non abbia fatto una versione a fumetti del romanzo di Cervantes, ma si sia cimentato nell'impresa di trasferirne lo spunto ai giorni nostri, per poi però abbandonare del tutto l'ispirazione fornita dal testo letterario. Nelle prime puntate, infatti, il Don Chisciotte contemporaneo immaginato dall'autore si scaglia contro un treno scambiandolo per un drago, così come il personaggio di Cervantes combatteva contro i mulini a vento vedendoli come giganti malvagi, ma poi tutto si trasforma in una satira sociale sull'italietta degli annoi Cinquanta, con le campagne elettorali feroci tra comunisti e democristiani, i malvagi palazzinari, i politici collusi con la malavita (c'è anche Zagar, il "Macchia Nera" jacovittiano), e così via. La lettura non è facile, per quanto sono fitti di parole e di segni i paginoni (ognuno dei quali costituiva una puntata), ma le trovate grafiche e le battute a sorpresa, talvolta folli, valgono la fatica.



IL GRANDE GATSBY
di Francis Scott Fitzgerald 
edizione con testo a fronte 
Marsilio, 2011

A convincermi a prendere in mano questo classico della letteratura americana, pubblicato nel 1925, non è stato, come si può pensare (e non ci sarebbe comunque niente di male), il nuovo film con Leonardo Di Caprio. E' stata, invece, la lettera del graphic novel "SuperZelda" della Minimum Fax, di Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta,la biografia fumettata che ho recensito in questo spazio e sul mio blog nella scorsa primavera. Zelda, personaggio in grado di rivaleggiare, come icona del suo tempo, con il marito, è Zelda Fitzgerald, la moglie di Francis Scott a cui "Il grande Gatsby" è dedicato ("Ancora una volta, a Zelda"). L'approdo al capolavoro di Fitzgerald è stato piacevolmente appassionante, nonostante il romanzo proietti il lettore in un contesto che sembra surreale: quello della New York degli anni Venti, simili per certi versi ai nostri anni Ottanta, sopra le righe, libertini, fatti di apparenza più che di sostanza, arrivisti, cinici, modaioli, festaioli, veloci, disinibiti, in corsa verso il disastro ma a suon di musica, come sul Titanic. La storia non è una storia, dato che alla fine i fatti principali accadono tutti fuori scena, raccontati come sono da un testimone, Nick Carraway, che non li conosce o non è presente mentre accadono, e che li racconta spostandoli nel tempo o collocandoli in modo sbagliato. Però, anche se Gatsby, il protagonista (negativo o positivo, vittima o carnefice, è difficile dirlo), non fa quasi niente mentre è alla ribalta del palcoscenico, cioè sotto gli occhi del narratore, quel che davvero succede o è successo viene fatto intuire al lettore, chiamato a cercare di decifrarlo, e perciò coinvolto e incuriosito. Il senso del racconto è la ricerca di una "grandezza" intesa come scalata sociale da parte dell'uomo che dà il titolo al romanzo: ci viene presentato (ed appare agli occhi del provinciale Nick, venuto dal Middle West a lavorare come agente di borsa a New York) con attributi mitici e leggendari (vive in una villa immensa, dà continuamente feste meravigliose, si favoleggia sulle sue imprese di guerra, sui suoi studi in Europa, sulle sue parentele altolocate, sulla sua ricchezza smisurata, sul suo gusto nel vestire ma anche sulla sua misteriosa solitudine, sul suo non bere, sulla sua malinconia). Ma chi è davvero Gatsby, che cosa vuole, perché è così inquieto? Perché tante feste, se poi non vi partecipa? Lentamente, Nick scopre che Gatsby coltiva il sogno di un amore per una ragazza, Daisy, conosciuta in gioventù, prima degli eventi bellici, quando i due si erano amati ma poi il destino li aveva separati. Adesso, Gatsby vuole riconquistarla nonostante lei si sia sposata con un altro. Ma ci sono altre cose che Nick scopre: la ricchezza di Gasby non deriva da eredità famigliare o da fortuna nel commercio, ma dal fatto di essere a capo di un'organizzazione malavitosa. E l'uomo ha umili, anzi, umilissime origini: tutta la sua ostentazione di ricchezza deriva dalla voglia di riscatto, di affermarsi in una società di cui, in passato, era vissuto ai margini. Se non aveva potuto sposare Daisy, era appunto perché era senza mezzi. Adesso i mezzi li ha, e la rivuole proprio perché la ragazza rappresenta quello che non aveva potuto avere. La fanciulla è un personaggio ambiguo, che nel finale segnerà appunto la rovina di Gatsby, il cui sogno di grandezza si interrompe in modo brusco e imprevedibile: se il personaggio di Fitzgerald rappresenta il sogno americano dell'uomo che costruisce il proprio destino, si tratta di un sogno destinato a infrangersi. L'edizione Marsilio, che gode di una strepitosa e moderna traduzione di Roberto Serrai, ha il testo inglese a fronte: è un piacere, di tanto in tanto, bearsi del suono delle frasi originarie, scoprendo come lo scrittore sappia davvero manovrare in modo magistrale le potenzialità della lingua.



PAPERINO DON CHISCIOTTE
di Guido Martina (testi) 
e Pier Lorenzo De Vita (disegni)
Mondadori, 1971

La storia, originariamente, era uscita a puntate su "Topolino" tra l'aprile e il maggio del 1956, e rappresentò il secondo episodio della lunga serie delle "Grandi Parodie" inaugurate nel 1949 con "L'inferno di Topolino". Nel volume mondadoriano non viene fatto cenno al nome degli autori (c'è scritto soltanto Walt Disney, come se si trattasse di un prodotto americano) ma si può riconoscere Giovanni Battista Carpi quale autore della copertina (almeno, così pare al mio occhio di vecchio lettore). Ho rispolverato questa storia, tirandola fuori dallo scaffale più alto della libreria, dopo aver letto (e recensito, pochi giorni fa) la versione del Don Chisciotte di Cervantes offerta da Benito Jacovitti (datata 1950 e dunque precedente). Martina sfrutta l'idea jacovittiana di trasportare le vicende cinquecentesche ai giorni nostri, ma ovviamente compie anche un lavoro di adattamento delle medesime allo spirito Disney e ai personaggi disneyani. Lo spunto iniziale parte dal paradiso degli eroi dove l'autentico Don Chisciotte si annoia e si rende conto che il ricordo delle sue imprese leggendarie rischia di arrugginirsi e scomparire se nessuno lo tramanderà ai giovani, perciò lancia il suo scudo sulla Terra perché giunga a un personaggio dei fumetti che in qualche modo ripercorra le sue gesta. Lo scudo colpisce Paperino che, rintronato dalla gran botta, nomina Pippo come suo scudiero (promettendogli il governatorato di un'isola, come accadde a Sancio Pancia). Nel racconto che segue compaiono anche Topolino, Minni, Zio Paperone e i nipotini. Va detto che la storia appare oggi un po' datata e che ai nostri occhi i disegni di Pier Lorenzo De Vita non sono efficaci come certamente apparvero ai lettori di un tempo. Tuttavia alcune gag sono ancora divertenti (la migliore, quella dell'albero dai cui rami di gode la visione di cose che non accadono). Il finale, con il giacimento petrolifero che Zio Paperone sottrae con l'inganno a Paperino, riporta la parodia del romanzo di Cervantes nell'alveo delle tradizionali storie disneyane (del resto anche Jacovitti si era attenuto al modello solo per metà della sua storia, prendendo poi tutt'altra direzione). Il volume, di per sé, è un pezzo importante nella storia del fumetto italiano, rappresentando un passo avanti della scuola di casa nostra verso il primato mondiale nel fumetto disneyano.



LA VITA DI GESU'
di Autore Anonimo
Unione Giovanile Cattolica
anni Venti
ristampa anastatica RBA, 2012

Si tratta di un volume cartonato in formato orizzontale, riprodotto fedelmente in tutte le sue novanta pagine, più copertina, dalla RBA, nell'ambito della benemerita raccolta "La Biblioteca dei Ricordo" (di cui abbiamo parlato su queste stesse colonne non troppo tempo fa). L'aspetto del libro è dunque esattamente quello in cui venne distribuito all'inizio del Novecento, in ambito parrocchiale, nelle Scuole e in famiglia: non contiene i quattro Vangeli, ma una sorta di loro novelization realizzata da uno scrittore non particolarmente talentuoso, incline anzi a dar prova di umorismo involontario e a infarcire la sua prosa di sgradevolezze lessicali, ripetizioni e dialettalismi. Lo scopo della pubblicazione è chiaramente quello catechistico e di proselitismo confessionale, e il target è quello dei ragazzi delle scuole elementari, tant'è vero che la collana di cui faceva parte si chiamava "Per la cultura religiosa dei bambini". Ogni due pagine ci sono bellissime illustrazioni in bianco e nero, ispirate a famose opere d'arte. La lettura riesce a dare il senso di un'epoca, vicina e lontana al tempo stesso, a calare in una diversa realtà sociale e culturale. Il narratore, che preferisce restare anonimo e si definisce soltanto "un amico" dei suoi giovanissimi lettori, si attiene al "grado zero" dell'affabulazione e quando deve trarre la morale da ciò che racconta punta all'indottrinamento spicciolo della predicazione di un tempo, basato sui sensi di colpa, la paura dell'inferno, l'obbedienza al clero. Il racconto comincia con la spiegazione del Peccato Originale, in ragione del quale si sarebbe resa necessaria la Redenzione (con l'Incarnazione del Figlio di Dio). "Iddio è onnipotente e può fare quello che vuole", è la premessa. Vuole pertanto creare il mondo, che prima non esisteva, ma Adamo ed Eva gli disubbidirono e commisero "un grande peccato" (quale, non è dato sapere) "e poi quasi tutte le altre persone che vennero al mondo disubbidivano al Signore e commettevano tanti peccati, sicché quasi tutte, quando morivano, andavano all'Inferno. Il Paradiso era chiuso e non ci poteva entrare più nessuno". A me, come bambino, sarebbe venuto da chiedermi dove andavano quei pochi che non commettevano peccati, dato che "quasi tutti" andavano all'Inferno, ma qualcuno no, però il Paradiso era "chiuso". 
Un altro dubbio che sicuramente mi sarebbe venuto è questo: se Iddio "può fare quello che vuole", evidentemente è stato lui a chiudere il Paradiso (non si certo chiuso da sé o contro la sua volontà), dunque gli sarebbe bastato un cenno del capo per riaprirlo, dimenticando il passato e facendo un po' meno l'offeso, per risolvere la faccenda senza tante complicazioni. Ma nel testo non c'è nessun accenno di soluzione per questi dubbi (ed è probabile che i dubbi stessi siano, anzi, parte del "grande peccato"). Altre domande uno se le potrebbe porre ascoltando il racconto dell'Annunciazione: "Dove si poteva trovare, sulla terra, una donna tanto pura e tanto santa, che potesse diventare la madre di Dio? Sembrava che non si potesse trovare. Ma il Signore, dal Paradiso, guardò tutti i paesi del mondo e vide che in un paese, che si chiamava Nazaret, c'era una giovinetta più buona e più santa di tutte le altre giovinette del mondo. Essa si chiana Maria, e S.Giuseppe era il suo sposo". Al che, Dio manda l'Arcangelo Gabriele. Ma se S.Giuseppe era il suo sposo, allora Maria era già sposata, quando arriva l'angelo. E dunque, non era vergine? Inoltre non sfugga il fatto che non si accenna al popolo ebraico come quello eletto, quello destinato fin dai tempi di Abramo a dare al mondo il Messia: i Vangeli, eppure, ne parlano. Fedele all'antisemitismo tipico della sua epoca (e di quelle precedenti), l'autore fa credere ai lettori che Nazaret fosse un paese come un altro, e che Maria era nata lì per caso, avrebbe potuto essere nata anche a Pizzighettone, e allora invece che di Gesù di Nazaret parleremmo di Gesù di Pizzighettone. L'umorismo involontario si scatena la prima volta quando il narratore racconta la nascita di Gesù, che come sappiamo fu deposto in una mangiatoia. "Gesù soffriva molto, perché aveva freddo e perché la paglia lo pungeva, ma soffriva volentieri perché voleva salvare tutti gli uomini con le sue sofferenze". Ecco, passi per il freddo, ma che tra le sofferenze di Gesù ci fosse anche il contatto con la paglia pungente, a me fa sorridere. Del resto, il martirio continua poco dopo: "Nel paese dove nacque Gesù c'era un costume (perché così aveva comandato il Signore) che ad ogni bambino, otto giorni dopo che era nato, si doveva fare una piccola ferita rotonda nella carne e il bambino versava un po' di sangue. Questa cerimonia si chiamava 'circoncisione'. Anche al Bambino Gesù dunque, otto giorni dopo che era nato, si fece la circoncisione ed egli soffriva, perché la carne era ferita e versava sangue; ma soffriva volentieri per amor nostro". Ecco, al di là della buffa descrizione della cerimonia, che non dice dove si eseguiva il taglietto e perché, se io fossi stato un bambino dell'epoca mi sarei chiesto perché mai il Signore avesse "comandato" (di sua iniziativa, a quanto pare) che si facesse così, e che dunque tutti i poveri bambini dovessero soffrire. Il fatto che soffrisse anche Gesù, in questo caso, mi sarebbe sembrata un po' colpa del Padreterno, più che nostra. E insomma, anche in questo caso, sai che sofferenza: capisco la croce, ma dato che il mondo è pieno di circoncisi ancora oggi, forse il patimento è sopportabile. Sorvoliamo sulla strage degli innocenti che forse si sarebbe potuta evitare senza la stella cometa (che fu, bisogna dirlo, un'imprudenza), e arriviamo alla parabola del ricco Epulone. Ci viene spiegato che costui va all'Inferno perché "aveva goduto tanto quando stava al mondo: aveva mangiato, bevuto e ballato e fatto tanti peccati", mentre il povero Lazzaro, che mendicava davanti alla sua porta, va in Paradiso perché, dopo aver tanto sofferto, adesso poteva godersi la gioia eterna. Colpisce la disparità tra il delitto e la pena, così come fra il danno e la ricompensa: per alcuni anni di gozzoviglie (certo imperdonabili), Epulone viene condannato a bruciare nel fuoco per l'eternità! Cioè, non per mille anni, ma per sempre. E Lazzaro, per aver patito qualche decennio, eccolo godere per tutti i secoli dei secoli. Qualunque avvocato potrebbe impugnare la sentenza, se le cose stessero così. E' chiaro che il racconto evangelico allude (spero) a significati più profondi, a cui però la nostra "Vita di Gesù" ci nega l'accesso. Anzi, trae questa morale: "Questa parabola la raccontava Gesù per far comprendere che dopo questa vita c'è veramente il Paradiso per quelli che sono stati buoni, e l'Inferno per quelli che sono stati cattivi. Lo dobbiamo credere perché l'ha detto Gesù e lo dice il Papa, lo dicono i Vescovi e lo dicono i Sacerdoti che sono stati mandati da Dio". Non mi dilungo oltre, il senso è chiaro. Basterà solo citare un passaggio del fervorino finale: "Perché a Gesù, che ti vuole tanto bene, gli fai tanto dispiacere e gli ferisci il cuore con le tue cattiverie?". Ecco, se io fossi un uomo di fede e volessi provare a spiegare il Vangelo, non farei discorsi del genere ma tenderei a spiegare come Gesù possa essere un maestro di vita e, soprattutto, possa riempire il cuore di gioia. Niente sensi di colpa, che così tanto ancora oggi mi affliggono, dai tempi del mio catechismo.



IL MISTERO DEL CASTELLO
di Nalim
Salani, 1971

Più che del romanzo in sé, vorrei parlare del perché l'ho letto e di come, secondo me, il motivo che mi ha spinto a farlo potrebbe interessare qualcuno di voi e convincervi a tentare un esperimento simile. Ho trovato "Il mistero del castello" su una bancarella di libri usati, sul lungomare di Lido di Camaiore. Mi ha colpito perché ricordavo benissimo quella particolare edizione nella collana "Biblioteca dei miei bambini": avevo una copia del tutto simile tra i miei libri d'infanzia, forse avuta in regalo per un compleanno. Fatto sta che nel 1971 ho compiuto nove anni, e i conti tornano: si tratta di un romanzo adatto appunto ai ragazzi di quell'età, o poco più. Guardando su Internet ho trovato edizioni ancora precedenti con altre copertine (anche più belle), ma io avevo proprio quella, che ho scoperto essere firmata da Loredano Ugolini, il fumettista autore di centinaia di storie di "Billy Bis" su l'Intrepido. Anche le illustrazioni interne sono di Ugolini, e in particolare ce n'è una, che vedete in alto, che mi colpì moltissimo da bambino e da cui sono stato folgorato nel rivederla. Per carità, come disegno non è il massimo, ma che senso di paura e di mistero riusciva a dare ai miei occhi di decenne! "Il mistero del castello", però, è sparito chissà dove e chissà quando dalla mia biblioteca: magari la copia che ho ricomprato potrebbe essere stata proprio la mia. L'ho portata a casa e l'ho riletta subito. Ecco perciò il consiglio che mi sento di dare a tutti: se trovate sulla bancarelle (o su eBay) un libro della vostra infanzia che è andato perduto, tornate a impossessarvene: è un pezzo della vostra vita e vi assicura il recupero di antiche emozioni. All'epoca della prima lettura non mi sono chiesto chi fosse Nalim, l'autore. Oggi, dopo una breve ricerca, ne so poco di più, ma intanto è chiaro che si tratta di uno scrittore di lingua francese attivo soprattutto fra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento, durante i quali pubblicò vari romanzi per ragazzi. Si tratta sicuramente di uno pseudonimo (viene detto in una scheda che ho consultato), e magari il suo vero nome è Milan, dato che è ciò che risulta dalla lettura al contrario (il che farebbe pensare a una origine slava dello scrittore). Ciò detto, di che cosa parla "Il mistero del castello"? La storia è ambientata in Francia durante il regno di Luigi XII, agli inizi del Cinquecento. Due bambine, dalle storie complicate ed entrambe affidate dai genitori a dei parenti (una, orfana, a un cugino, una, con la madre e il padre costretti a espatriare, a una nonna), trovano un passaggio segreto che unisce le loro due dimore, un castello e un più piccolo maniero costruito nei dintorni. Il proprietario del maniero è da tempo accusato di misteriosi furti che avvengono o tra gli ospiti delle sue mura o tra i viandanti di passaggio: benché non ci siano prove che sia lui il ladro, l'opinione comune è che tutti gli indizi lo accusino. Perciò, alla bambina del castello viene vietato di vedere l'amichetta che vive nel maniero. Ma saranno proprio le due ragazze a scoprire il vero autore dei furti: un vecchio maggiordomo, che sfrutta proprio i sotterranei che uniscono le due magioni. Essendo un romanzo per ragazzi, il colpevole non viene impiccato seduta stante come sarebbe avvenuto nella realtà ma, poiché si pente e si ventila l'ipotesi di una sorta di cleptomania che si sarebbe impadronita di lui, finisce assunto come giardiniere in un convento, da cui comunque gli è impedito di uscire.



BERENICE SI TAGLIA I CAPELLI ALLA MASCHIETTA
di Francis Scott Fitzgerald
collana "Twin Stories" del Corriere della Sera
testo inglese a fronte.
giugno 2012

 Due parole sulla collezione di cui fa parte questo libro: si tratta di piccoli brossourati distribuiti in edicola con il Corriere della Sera, a soli 2.80 euro più il prezzo del quotodiano, che presentano racconti di maestri della letteratura americana in versione originale e annotazioni linguistiche per migliorare l'inglese dei fruitori, oltre a fornire comunque la traduzione italiana. Dopo "Il grande Gatsby" (che ho recensito pochi giorni fa) non potevo perdermi questo gioiellino così agile da leggere, anche perché già dal titolo ("Bernice bobs her hair") fa riferimento alla moda degli anni Venti (l'opera è appunto datata 1920) di cui fu un'icona Zelda Fitzgerald, la moglie dello scrittore, la capostipite e il punto di riferimento delle "maschiette". E Fitzgerald non delude dando ai suoi lettori esattamente quel che promette: uno spaccato della sua epoca (modaiola, festaiola, disinibita, libertina) e un ritratto di alcune folgoranti figure femminili, a partire da Berenice (ragazza un po' all'antica che trascorre le vacanze ospite di una zia in una città diversa dalla sua) e da sua cugina Marjorie (un tipino che invece sa come giocare a fare la seduttrice). Marjorie insegna alla impacciata Berenice com'è che si fa a farsi un seguito di spasimanti, e a diventare popolare fra tutti i ragazzi del vicinato. Finché Berenice non soffia alla cugina il bel Warren, il giovanotto su cui Marjorie aveva messo gli occhi. Leggere il testo italiano e gettare lo sguardo ogni tanto su quello originale è senz'altro utile per allenare il nostro inglese, e non si può, così facendo, non ammirare la pulizia, la ricchezza lessicale e la perfezione stilistica di Fitzgerald, autentico self-made-man che incarna il sogno americano.


GIL ELVGREN
The complete pin-ups
a cura di Charles G. Martignette 
e Louis K. Meisel
Taschen, 2008

E' un volumone (270 pagine formato A4, tutte a colori) che fa la gioia degli occhi e che racchiude oltre quarant'anni di carriera di Gil Elvgren, uno dei massimi illustratori americani del Novecento, specializzato nel raffigurare pin up di fanciulle in fiore. Nato nel 1914 nel Minnesota e scomparso nel 1980, Elvgren ha realizzato, tra le metà degli anni Trenta e quella dei Settanta, qualcosa come cinquecento illustrazioni a colori, che sono finite sotto gli occhi di milioni di persone (alcune sue pubblicità per la Coca Cola e la Coppertone hanno fatto il giro del mondo e sono diventate delle icone). Principalmente,il disegnatore ha lavorato per il settore pubblicitario, per riviste main stream, per riviste per soli uomini e per l'oggettistica legata alle pin up (calendari, carte la gioco), calibrando dunque il livello erotico delle immagini sulla base della committenza, ma senza mai trascendere. Alcune sue immagini raffigurano nudi integrali femminili ma non turberebbero neppure un seminarista, mentre ritratti di donne perfettamente vestite sono allusivi e maliziosi. In ogni caso, le bellezze mostrate sono ragazze acqua e sapone, quasi sempre gioiose, spesso ingenue o sognatrici, sempre empaticamente desiderabili, rassicuranti e leggere, e corrispondenti perciò a un immaginario maschile che cerca in una donna la rassicurazione, la serenità, il divertimento, la seduzione lontana dagli eccessi morbosi e dall'aggressività. Nessuna delle fanciulle si atteggia mai a mangiatrice di uomini. Più che tigri, le ragazze di Elvgren sono gattine. Eppure, non manca loro il sex appeal, né la carica sessuale. Il volume della Taschen, corredato da un lungo e interessante saggio critico (in inglese), mostra anche alcune delle foto delle modelle che posavano per l'artista.



IL PATIBOLO
di Dario Papa
Perosini, 1994

Si tratta di un agile libretto (settanta pagine) che fa parte della collana "Avventure", diretta da Claudio Gallo, il massimo esperto vivente sulla vita e l'opera di Emilio Salgari. E in effetti un collegamento fra Dario Papa (l'autore del testo) e il creatore del Corsaro Nero, c'è: veronesi entrambi, furono scrittori contemporanei (Papa muore nel 1897, a cinquantun anni), ed ebbero tutti e due una carriera giornalistica, lavorando per qualche tempi al quotidiano "L'Arena". Giornalista, Dario Papa lo restò tutta la vita. E che giornalista, a dar retta non soltanto a quel che dicono di lui l'autrice della prefazione (Lucia Annunziata) e i due postfattori (Antonio Marchesi e lo stesso Claudio Gallo), ma anche alle impressioni che si ricavano dalla lettura dei due suoi testi presentati nel volumetto. Si tratta di un paio di interessanti estratti tratti da un'opera più ampia, "New York", datata 1884, che ho letto (lo confesso) nel mio lavoro di preparazione per una storia di Zagor con lo stesso titolo, dato che si descrivono le famigerate "Tombs", ovvero la prigione newyorkese, non lontana dai Five Points, dove si eseguivano le condanne a morte. E proprio di due processi e due esecuzioni si racconta. Papa, nel suo avventuroso viaggio negli Stati Uniti per scopi giornalistici (attraversò tutta l'America de Nord coast-to-coast) descrive il Paese che visita con acutezza critica e non come un turista in gita di piacere. E' critico e perfino severo, anche se poi fu conquistato dall' american way of life e da fervente monarchico (com'era anche Salgari) divenne repubblicano e federalista. "Il patibolo" descrive però la giustizia com'è amministrata (in modo che a lui pare sommario) a New York. E lo fa con asprezza, sembrandogli che agli imputati, soprattutto se poveri e immigrati, non venisse garantito il diritto di difesa (ovvero: che ci fosse un preponderante vantaggio per l'accusa). Singolarmente, Papa contesta l'invadenza della stampa che, a suo dire, faceva i processi in piazza prima ancora dello svolgimento in aula. Scrive il giornalista: "Qualcuno si chiederà come mai i giornali sapessero tante cose. Gli è che negli Stati Uniti essi passano dappertutto con una facilità straordinaria. Certissimamente là i giudici devono avere delle idee molto diverse da quelle dei nostri anche in fatto di preparazione dei processi: perché mentre da noi i giornalisti trovano le porte chiuse, non foss'altro per la ragione che non si vuole intralciare il processo, mettere la gente sull'avviso, frastornare misure che si son prese, là si può ben dire che i giornalisti istruiscono il processo prima ancora che chi ci ha il dovere". Sconvolgenti e terribili i passaggi in cui Papa descrive una impiccagione per cui ha ottenuto un invito, appunto allo scopo di documentarla: "Vidi ciò che di più orribile io abbia veduto mai. A due metri dal suolo, il condannato si agitava nelle più violente convulsioni". A corredo del testo, e anche a commento di queste parole, alcune belle illustrazioni di Paolo Bacilieri.



RUGHE DA SALITA
di Federico Pagliai
Biblioteca dell'Immagine, 2011

Si tratta del secondo libro di Pagliai, classe 1966 e stesso mio comune di nascita, dopo la raccolta di racconti "I miei crinali - Sedici colpi di pennato" (2008), che mi ha folgorato fin dal titolo. Il "pennato" io so benissimo cos'è, perché mio nonno, che andava per i boschi a far legna, lo portava sempre in vita appeso a un gancio che, ai miei occhi di bambino, doveva essere assai simile a quello a cui anche Zagor attaccava la sua scure. Fuori dalla montagna pistoiese, credo che si chiami roncola, ma non sono sicuro che questo secondo termine identifichi esattamente l'accetta arcuata, e dalle dimensioni di un machete, che conosco io. Fatto sta che i "sedici colpi di pennato" erano sedici testi scritti come se fossero stati incisi nella corteccia di un albero: testi scritti, dico, perché non sarebbe corretto neppure chiamarli racconti, dato che di inventato non c'era nulla e il talento dell'autore come affabulatore si manifestava non con l'invenzione ma con la narrazione. Pagliai raccontava cose che aveva visto, che sapeva, o di cui a sua volta aveva sentito raccontare, dando testimonianza di fatti, rappresentando persone, manifestando stati d'animo ed emozioni. Attraverso il suo personale punto di vista di uomo di montagna, abituato ad andare per crinali, a vivere in simbiosi con le rupi e il sottobosco, raccontava un mondo che piano piano va scomparendo. Con "Rughe da salita", l'impresa si ripete. Di nuovo, un titolo bellissimo, Accompagnato da una bellissima foto in copertina. Anche questa volta si tratta di una antologia (nove i titoli), e di nuovo si raccontano storie di montagna, di Appennino pistoiese. Rispetto alla prima prova, Pagliai si è fatto più maturo, anche se servirebbe qualche colpo di pialla o di sgorbia per eliminare le asperità dei colpi di pennato. Tuttavia, che sappia raccontare è innegabile. Si sta ad ascoltarlo a bocca aperta anche quando scrive "empire" per "riempire" o "piuri" per "mirtilli", scrive i mesi con la maiuscola ed esagera in puntini di sospensione e virgolette. Come se parlasse, appunto, e volesse mettere enfasi nel suo discorso. Se nei primi racconti l'esperienza raccontata era più personale, qui si parla di fatti d'altri e di personaggi incredibili, che quasi si fatica a credere che possano essere esistiti davvero. Ma i riferimenti sono precisi, l'autore è attendibile, e la gente di montagna è sempre un po' sopra le righe o un po' sotto. Taciturni e camminatori, con il fiuto per i funghi, l'istinto della caccia, la propensione verso il vino e le mangiate in compagnia (stomaci di ferro, quelli della gente di appennino), si tratta comunque di una razza in via di estinzione, perché sui crinali ci salgono sempre in meno, e lo spirito montanino non sembra essere stato ereditato dalle nuove generazioni. Ma, come scrive Mauro Corona nella sua prefazione, "vi sono molti modi per salvare il passato, vari modi per consegnare ai posteri un po' di memoria". E uno è raccontare ciò che si è visto, ciò che si sa. Talvolta facendo ridere, talvolta commuovendo. In questo modo, anche Celentano, l'uomo in grado di provocare un terremoto artificiale pur di vincere una scommessa, o la banda del Lago Santo, pronta a friggere i funghi con l'olio di una automobile pur di mangiarli, vivranno e rivivranno insieme al loro mondo trasferito su carta in attesa che altre leggende e altri mondi, sostituiti dai successivi, vengano a far loro compagnia.



ADOLF
di Walter Moers
Edizioni e/o, 1998

L'ho trovato su una bancarella dell'usato, e mi ha colpito perché, sfogliandolo, mi è parso un magnifico esempio di scorrettezza politica, un po' come "Hitler = SS", la serie umoristica di Jean-Marie Gourio (testi), e Philippe Vuillemin (disegni) pubblicata sul mensile francese "Hara-Kiri" nel 1980, e poi raccolta in volume anche in Italia. In realtà, i disegni di Vuillemin sono magistrali (nella loro deformazione grottesca) quanto sono banali e perplimenti (come direbbe Rokko Smitherson) quelli del tedesco Moers, che certo non ha lo spessore grafico del collega e punta all'estrema essenzialità dello scarabocchio piuttosto che alla costruzione di una vignetta (e men che mai di una tavola). La storia, raccontata per la prima volta nel 1997 sulla rivista "Titanic" è quella di Adolf Hitler che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si è rifugiato nelle fogne meditando sui suoi errori ("sarebbe stato meglio attaccare la Russia sui fianki") e ne esce quando i suoi reati sono caduti in prescrizione. Comincia quindi a cercare di rifarsi una vita nonostante le angosce esistenziali che lo opprimono. Per questo si rivolge a uno psicoterapeuta, il dottor Forunkel, che come strumento per liberarsi dell'ansia gli prescrive il tamagochi. Hitler se ne innamora finché non scopre che si tratta di una invenzione giapponese: "Vili traditori! Gettare la spugna per due misere atomike!". Così, lascia morire il pulcino. Il dottore gli prescrive allora una "bella scopata", ma la prostituta a cui Adolf si accosta si rivela essere un travestito, e per la precisione il fido Goering che si veste da donna per sbarcare il lunario. Durante un viaggio a Parigi, Hitler sale sulla macchina di Lady Diana e provoca l'incidente mortale, scendendone illeso e fuggendo prima che arrivino i soccorsi. Quindi, il nostro viene rapito dagli alieni e, a bordo di un disco volante, si diverte a disegnare svastiche nei campi di grano. Gli alieni, ritenendolo un esempio di maschio perfetto, vogliono farlo accoppiare con una donna perfetta, individuata in Madre Teresa di Calcutta, alla quale, perché si attizzi, viene fatto credere che Adolf sia il papa. Il fuhrer getta la santa donna giù dall'FO, lotta con gli alieni e li fa precipitare in Giappone, dove ritrova il suo psicoterapeuta. Dopodiché, un delirio da feulleton: il dottor Forunkel si rivela essere Lady Diana mascherata, che non è morta nell'incidente parigino: tutta una messinscena per poter scomparire e dedicarsi allo scopo della sua vita, quello di distruggere il mondo. Per realizzarlo, il dottore imbarca Hitler sull'Air Force One, dove c'è il pulsante rosso dell'apocalisse. Forunkel uccide tutto l'equipaggio e vuole che sia proprio Adolf a premere il bottone che scatenerà la guerra globale (chi, meglio di lui?). Il fuhrer riesce a mettere il pazzo fuori combattimento, ma quando cerca di avvisare le autorità a terra che sull'aereo presidenziale americano sono tutti morti e che lui, Adolf Hitler, ne è alla guida, parte un missile terra-aria che abbatte il velivolo. Il nostro eroe si salva con il paracadute e giunge in America del Sud, dove ritrova Goering (ancora vestito da donna), con il quale si accasa. E vissero felici e contenti. Questa è la storia, disegnata male, ma disegnata. Fa ridere? Non so. Qua e là. Certo, Vuillermin era un'altra cosa. C'è da chiedersi comunque se, tutti e due, Moers e Vuillermin, oggi li pubblicherebbe qualcuno.



IL RITORNO DI SCHELETRINO
di Alfredo Castelli, Mario Gomboli e Carlo Peroni
Edizioni Diabolik Club, 2010

Auspicavo il secondo volume delle avventure di Scheletrino, dopo aver letto il primo, pubblicato nel 1994 da Giancarlo Malagutti, che aveva raccolto tutte le storie del parodico criminale (forse dovrei scrivere "kriminale" con la kappa) scritte e disegnate da Alfredo Castelli tutto da solo (one man show), in una antologia che si fregiava di una copertina di Giorgio Cavazzano in cui comparivano, oltre a Scheletrino (evocato in realtà soltanto da un'ombra) anche Martin Mystère e Java. La prima serie di Scheletrino, quella appunto castelliana, va dal 1965 al 1967 (39 storie in tutto), apparse in appendice a Diabolik: si dice che le sorelle Giussani pubblicassero volentieri le tavole del giovanissimo Alfredo perché, essendo Scheletrino appunto raffigurato come uno scheletro, ritenevano che prendesse in giro principalmente il personaggio maggior concorrente del Re del Terrore, ovvero Kriminal. In realtà, Scheletrino prendeva in giro in generale tutti i "neri" italiani, i fumetti con la "K" (ma anche quelli con la X, la Y e J). Ma più in generale era un fumetto demenziale sulla falsariga di quelli che apparivano su Mad, e in linea con i primi fumetti satirici a sfondo sociale e anche politico, pur senza la pretesa di denunciare alcunché. Se inizialmente Scheletrino era un soltanto un ladro sfortunato,a cui vanno tutte male mentre a Diabolik vanno tutte bene, un po' alla Cattivik (che comunque è successivo), successivamente diventa un vero e proprio meta-fumetto, uno di quelli cioè in cui il protagonista sa di essere un eroe di carta e interagisce persino con i redattori della propria Casa editrice (uno dei suoi scopi è prendere il posto di Diabolik nel palinsesto della testata). Ma a un certo punto, Castelli smette di realizzare le avventure del suo testa-di-scheletro, distratto da tante altre cose che aveva cominciato a fare. Così le Giussani chiesero a Mario Gomboli, amico di Alfredo e collaboratore della loro Casa editrice, di portare avanti lui la serie, visto che i lettori chiedevano il ritorno del personaggio. Gomboli accettò a patto che a disegnare le nuove avventure fosse un professionista, che fu facilmente individuato in Carlo Peroni, alias Perogatt. Un maestro del fumetto umoristico, con cui Castelli avrebbe realizzato la serie "La vacchia casa oscura" (che speriamo sia presto ristampata a sua volta). Così, Scheletrino rinasce nel luglio 1970 con disegni effettivamente più curati dello standard precedente. Le prime due storie del nuovo corso, in realtà, portano ancora la firma del BVZA. Poi, Gomboli e Perogatt imperversano da soli per altri tredici episodi, fino al luglio 1971. Poi anche Gomboli getta la spugna, non si sa bene per quale motivo (nella prefazione, lo stesso Gomboli non è molto chiaro: dice che Castelli "manifestò insofferenza" ma, nello stesso tempo, si dimostrò "disponibile" a lasciarlo proseguire, ma lui non volle). A corredo del volume, in appendice, un saggio di Roberto Altariva esamina criticamente tutta la vicenda editoriale di Scheletrino e fornisce alcune dritte su come interpretare passaggi e battute che forse venivano capite all'epoca ma che risultano criptiche oggi. Un solo appunto, al proposito: nella prima storia, si vedono varie proteste in tutto il mondo per ottenere il ritorno di Scheletrino e, per esempio, i manifestanti di destra agitano cartelli con su scritto "Scheletrino o morte!", i pacifisti gridano lo slogan "Fate Scheletrino e non la guerra", i figli dei fiori innalzano striscioni psichedelici, gli impiegati pubblici per protesta cominciano a lavorare (se scioperassero in favore di Scheletrino, sarebbe stata la norma), eccetera. Ma si nota anche Mao Tze Tung che, invece di fare il bagno nel fiume, rimane sdegnoso sulla riva e sembra non volere più nuotare finché Scheletrino non ricomparirà sulle pagine di Diabolik. Le note dicono che "il rifiuto del presidente Mao a esibirsi nella gara di nuoto, con tutta probabilità riecheggia il ventilato boicottaggio delle olimpiadi messicane del 1968 da parte degli atleti di colore degli Stati Uniti". Secondo me, il collegamento più immediato è invece proprio con Mao che per tradizione e in chiave propagandistica si faceva fotografare ogni anno a guazzo nel fiume Yangtze in ricordo di quando, il 16 luglio 1966, aveva attraversato a nuoto il Fiume Giallo all'altezza di Wuhan, per tornare a Pechino a guidare la rivoluzione. Qualche anno dopo, esaminando l'ultima foto che raffigurava la tradizionale nuotata, in Occidente si scoprì che si trattava di un fotomontaggio: il vecchio leader non gliela faceva più, ma la propaganda esigeva che si dimostrasse al mondo come il Libretto Rosso mantenesse giovani e vispi. Anche Magnue & Bunker, in un loro Alan Ford, mostrano Mao nuotare in un fiume e affogare.


IL FARO
di Paco Roca
Tunué, 2006 

Dopo aver raccomandato a tutti "Rughe" e "L'inverno del disegnatore" (vedi qui: http://morenoburattini.blogspot.it/2012/05/letti-letto.html), non posso non raccomandare anche questo bellissimo graphic novel di poco precedente. Paco Roca è sicuramente un grandissimo narratore, nei testi e nei disegni, e chiudendo i suoi libri si resta poi come inebetiti a fissarne la copertina, colpiti, commossi, soddisfatti. "Il faro" è ambientato in Spagna (il Paese dell'autore) durante la Guerra Civile del 1936-1939, ma non è una storia di guerra. Anzi, è una storia della ricerca di una terra utopica in cui le guerre non ci sono. Il giovane Francisco Guirado, repubblicano, ferito e in fuga, cade in mare e viene salvato dal vecchio Telmo, guardiano di un faro da sempre affidato alla sua famiglia. Solo che il faro è spento perché la grande lampada è rotta, e Telmo è in attesa che le autorità gliene mandino una nuova. La guerra sembra aver bloccato tutto, ma l'uomo attende fiducioso e nell'attesa tiene il faro in perfetta efficienza. Non sembra essere schierato nel conflitto in corso: a Francisco che gli chiede se sia fascista, il vecchio indica l'orizzonte e replica: "Come disse il Capitano Nemo, il mare è il rifugio egli uomini liberi". Il ragazzo vorrebbe ripartire appena guarito, ma Telmo lo trattiene. Anzi, lo convince a costruire insieme a lui una barca per raggiungere un'isola che, a suo dire, sorgerebbe in mezzo al mare davanti alla costa, l'isola di Laputa, dove gli uomini sono saggi e illuminati e dove si può vivere in pace. Nel finale, Francisco scopre che non è Verne la sola lettura di Telmo, il quale si nutre di racconti di viaggi e di storie fantastiche, come quelle che gli narrano i resti dei naufragi che le onde depositano davanti al faro, da cui non si è mai mosso. E fra queste letture c'è anche "I viaggi di Gulliver", da cui l'isola di Laputa è tolta di peso. Inoltre, le lettere che il vecchio custodisce in un cassetto svelano anche che il faro è stato abbandonato e che non riceverò nessuna lampada, e anzi il guardiano, licenziato, viene invitato ad andarsene. Ma ecco l'irruzione dei soldati di Franco: il sacrificio di Telmo permette a Francisco la fuga sulla barca. C'è da notare che Paco Roca non ci consegna una storia in cui, come si si aspetta, i repubblicani sono tutti buoni e i franchisti tutti cattivi. Uno degli episodi mostra anzi la strage di una famiglia di innocenti, fucilata dai comunisti solo perché "qualunque persona avesse del denaro era considerata fascista". Sono cose come queste che spingono a cercare l'isola di Laputa, dovunque essa sia, in cerca di un mondo con meno orrori e più giustizia.



IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D'AMORE
di Luis Sepulveda
Guanda, 2004

Il titolo trae in inganno: ero diffidente nell'approcciarmi a questo libro, temendo in un polpettone romantico-sentimentale-intimista o, peggio, intriso di politicamente corretto o di terzomondismo (il mondo, per me, è uno solo e tutti facciamo parte di quello lì). Invece, ho scoperto un romanzo affascinante, avvincente, emozionante, con personaggi vivi e indimenticabili (a partire dal dentista della scena iniziale, che ha fatto sentire male in bocca anche a me, che soltanto ne leggevo). Nelle pagine di Sepulveda c'è tutto quello che un lettore come me può desiderare: ambientazione esotica (la foresta amazzonica in territorio ecuadoriano), avventura (la caccia a una belva feroce), sangue e morte, descrizione di popoli lontani (gli Shuar, o Jivaros come sono più noti qui da noi), dramma e umorismo, introspezione psicologica, tensione emotiva e perfino una morale da trarne perfettamente condivisibile perché spirituale e non ideologica. L'Amazzonia descritta da Sepulveda in tutta la sua bellezza e la sua crudità (più che crudeltà) è la vera protagonista del racconto, ed è essa stessa un motivo per cui, per esempio, chi si è nutrito delle storie di Mister No non dovrebbe perdersi questo romanzo. Il vecchio a cui allude il titolo è Antonio José Bolívar Proaño, un cacciatore che vive nella piccola comunità di El Idilio, dove si è ritirato dopo aver trascorso molti anni della sua esistenza tra gli indios Shuar e aver imparato da loro a sentirsi parte della foresta, a respirare con essa, a pensare come pensano gli animali e le piante. Tornare fra i bianchi è stato per lui inevitabile, dopo aver commesso involontariamente una sorta di sacrilegio agli occhi degli indigeni, che piangono per lui e con lui quando devono separarsi. E a El Idilio, il suo unico passatempo, che diventa una passione, è quello della lettura di romanzi che narrano di amori travagliati, che fanno soffrire, quasi una sublimazione del suo antico matrimonio, finito male, consumato senza baci. Gli abitanti di El Idilio, rozzi e ignoranti, sono una eterogenea comunità di gente condannata a vivere in una terra ostile che non capisce e contro cui lotta, mentre gli Shuar ci vivono in simbiosi. Il sindaco, in particolare, grasso e odioso, soprannominato "Lumaca", è il simbolo dell'incapacità dei bianchi di intendere i linguaggio della natura. Da qui i suoi frequenti scontri con Antonio José, che spesso gli dimostra la sua incompetenza. Ma quando El Idilio viene minacciata da un tigrillo (un grosso felino simile a un giaguaro) che comincia a uccidere mercanti, cercatori d'oro e viandanti nella foresta, l'esperienza del vecchio diventa indispensabile. A scatenare la furia del tigrillo, una femmina, è stato un "gringo" cacciatore di pellicce, che le ha ferito il compagno e ucciso i cuccioli. Dunque, la violenza della natura è stata scatenata da uno stupro della natura stessa. Vista l'impossibilità di riuscire, con una battuta di caccia in più persone, a fermare il felino, astuto e intelligente quant'altri mai, il sindaco incarica Antonio José di tentare da solo, promettendogli un grosso premio in denaro se riuscirà a riportare la pelle dell'animale. Il vecchio accetta, e ingaggia una lotta con il tigrillo che tiene con il fiato sospeso, fino al duello finale, la cui conclusione rende inevitabile al lettore fermarsi a riflettere.



LE GANG DI NEW YORK
di Herbert Asbury
Garzanti, 2001.

Una scritta in copertina avverte che si tratta del libro "che ha ispirato il film di Martin Scorzese", ed è vero. Però, va detto subito che non si tratta di un romanzo. E' un saggio. Estremamente avvincente, ma è un testo che oggi leggiamo come un libro di storia ma che quando fu scritto, nel 1927, raccontava quasi fatti di cronaca, tant'è vero che l'ultimo capitolo, il sedicesimo, intitolato "La scomparsa dei gangster" si conclude raccontando l'uccisione di un certo Little Augie, avvenuta il 16 ottobre di quello stesso anno. Le fonti che Asbury (uno dei più grandi giornalisti americani del secolo scorso, morto nel 1963) cita sono quasi tutte articoli di giornale e archivi di tribunali e della polizia. La parte più interessante, almeno per il sottoscritto, è comunque quella che racconta della prima metà dell'Ottocento, partendo in realtà dal riempimento del Collect (uno stagno che sorgeva alla periferia nord della New York di fine Settecento) su cui furono in pratica costruiti i Five Points. L'edificio simbolo è la Old Brewery, una fabbrica di birra dismessa che divenne il più celebre caseggiato della storia della città, lo stesso che si vede all'inizio del film di Scorsese, nelle cui viscere (un tempo depositi e magazzini) vivevano centinaia di persone stipate in condizioni di abbrutimento. La descrizione che Asbury fa, citando testimoni dell'epoca, della realtà quotidiana delle strade circostanti è impressionante. Chi legge il libro e poi si rivede il film riconosce mille particolari raccontati dall'autore, dal poliziotto che appende l'orologio a un palo della piazza certo di ritrovarlo (ma solo perché è colluso con i malavitosi), ai pompieri che lottano fra di loro invece di spegnere gli incendi, alla donna con i denti limati e fatti aguzzi che strappa gli orecchi a morsi e ne fa trofei sotto spirito, al bruto con la mazza su cui sono incise tante tacche quante sono state le sue vittime. La regola era che qualcosa apparteneva a qualcuno solo finché costui era in grado di difendersela, chi gliela portava via non commetteva una ingiustizia, dimostrava solo di essere più forte o più furbo. Impressionante anche la parte in cui si racconta della rivolta popolare conseguente alla coscrizione obbligatoria durante gli anni della Guerra Civile. 420 pagine che non lasciano indifferenti: certe atrocità sembrano medievali, ma risalgono davvero a un battito di ciglia fa.